1967
I CENCI
di A. Artaud
Traduzione e regia di Gennaro Vitiello; scena Giovanni Girosi, direzione tecnica Giovanni Girosi e Angelo de Falco, realizzazione Alfredo Abbisogno; costumi Odette Nicoletti, realizzazione Odette Nicoletti, Paola Panico, Raffaella Paparo e Flora Pastore della Scuola di Scenografia dell’Accademia di BB. AA. di Napoli; musiche originali Sergio de Sanctis e Arturo Morfino; direzione delle luci Lello Solli; aiuto regista Gerardo d’Andrea; pubblicità, propaganda e sviluppo Tony Fusaro.
Attori: Davide Maria Avecone (Cenci), Mario De Luca (Camillo), Adriana Cipriani (Beatrice), Tony Fusaro (Orsino), Maria Elena vincenti (una domestica), Dely de Majo (Lucrezia), Giulio Baffi (principe Colonna), Sergio de Sanctis (Giacomo), Angelo Baldroccovich (Bernardo).
Prima rappresentazione nazionale il 15 dicembre 1967 presso il Centro Teatro Esse, via Martucci, 18 – Napoli.

I Cenci
l’incontro con Artaud

I Cenci debuttò il 15 febbraio 1967, dopo alcuni mesi di prove, durante i quali i componenti del TS lessero gli scritti di Artaud, tradotti dal francese dallo stesso Vitiello: “traducevo e leggevo insieme agli attori brani de “Le Théatre et son double” e “Les Cenci”…”(1). Si discuteva del termine crudeltà, gli animi si accendevano leggendo e parlando di un teatro fatto sulla scena, un teatro non più solo illustrazione di un testo letterario, ma azione autonoma, di un linguaggio fatto di immagini e di segni, dell’importanza del corpo, dei gesti, dei movimenti, dei suoni, dei rumori, della musica, dell’uso non consueto della luce, dell’uso delle maschere. Vitiello pensò di usare questo testo per applicare le teorie di Artaud sul teatro: usare I Cenci, ossia un testo letterario, liberamente, attraverso una interpretazione drammaturgica autonoma.

Nicola Chiaromonte scrisse: “I giovani attori del Teatro Esse ne fanno una specie di dramma elisabettiano di loro invenzione…”(2).

Applicando le teorie di Artaud che auspicava sale teatrali dove l’azione drammatica potesse avvenire in tutte le dimensioni, in altezza, in larghezza, in profondità e intorno agli spettatori, lo scenografo Giovanni Girosi ideò una scenografia basata su una struttura metallica che avvolgeva l’intera sala, rivestendola di fogli di plastica trasparente e colorati, creando una enorme vetrata a forma di emisfero, che copriva il palcoscenico e gli spettatori. Quasi una cattedrale gotica, all’interno della quale gli attori agivano sul palco che aveva la forma di una T, con il tavolato sul fondo e la lingua sporgente in avanti tra gli spettatori, e sulle due balconate laterali: “La scena rappresentava una galleria a volte, e il tutto era costruito con velari che davano l’impressione di potersi dissolvere da un momento all’altro: i colori della scena rinviavano ad un mondo fantastico, ma reale…”(3).

“E, in quell’ambiente, le sessantaquattro persone che vi trovano posto, sono inevitabilmente trascinate dalla schiettezza e dall’impeto dell’interpretazione… Beatrice è impersonata splendidamente da Adriana Cipriani, attrice giovanissima e miracolosamente immune da ogni suggestione che non le venga dal suo temperamento e dalla sua ispirazione. Che rimanga tale è l’augurio che le facciamo…Con loro si sta a teatro, grazie gliene siano qui rese.”(4).

I costumi furono creati da Odette Nicoletti, definiti sontuosi, con i colori della pittura veneta del ‘500.

Nella traduzione del testo fatta da Vitiello, una “…traduzione del testo dall’originale francese con linguaggio sciolto ed insieme greve quel tanto che necessitava a recuperare l’oscura atmosfera cinquecentesca delle vicenda”(5), fu accentuata la dimensione simbolica, diminuendo quella relativa al potere e alla sua forza di corruzione, ed assumeva una posizione centrale il bisogno di trasgressione, che culminava nella simbologia dell’incesto. Nel testo questo bisogno di trasgressione si manifestava come un bisogno generale, che riguarda tanto coloro che tentano di soddisfarlo con la violenza, ossia i carnefici, quanto coloro che, subendo, si infliggono violenza da sé, cioè le vittime. Per questo nello spettacolo di Vitiello il Conte Cenci non è il malvagio e Beatrice non è la vittima, ma in entrambi è presente una inquietante ambiguità: “la chiave di lettura dello spettacolo…era nelle parole che Beatrice Cenci pronunzia alla fine della pièce: “Occhi miei su quale orribile spettacolo vi aprirete morendo. Chi mi potrà garantire che, laggiù, non ritroverò mio padre. Questo pensiero rende la mia morte più amara. Perché ho paura che la morte mi rilevi che ho finito per assomigliarli”…”(6). Personaggi per i quali non è possibile fare una distinzione perché ambigui, dove non ritroviamo una netta separazione tra il bene e il male, o un’ideologia del bene o del male. Vitiello, infatti, per costruire i personaggi del dramma non usa il metro morale: sono personaggi contraddittori che si muovono in un delirio emotivo, spinti dal desiderio di aggredire e aggredirsi, di esplodere in tutta la loro carica di irrazionalità, di liberarsi catarticamente di un mondo interiore fatto di “paure e fantasmi conseguenti da tabù collettivi…”(7).

Non a caso, nel programma di sala dello spettacolo, Vitiello cita e si trova d’accordo con il rifiuto di Artaud di considerare “…l’ intervento del teatro nella vita sociale tramite la morale, la propaganda e la filosofia…svincolando il teatro dalla funzione di divulgazione d’un qualsiasi sistema filosofico, elargendogli un vitalismo anarchico che lo potesse svincolare da tutte quelle restrizioni sociali che generalmente non subiscono le altre arti…”(8). Vitiello fa esprimere ai suoi attori la carica aggressiva dei personaggi attraverso i gesti, come già era accaduto ne La Magia della Farfalla. Il corpo dà origine ad un linguaggio teatrale, attenuando la forza della parola, la sua violenza espressiva. Una scelta registica molto efficace che rispettava anche la struttura verbale del testo di Artaud: “Il testo di Artaud ha un piano verbale che non suggerisce una espressione urlata, ma piuttosto suggerisce la rappresentazione violenta delle emozioni che sono sottese alle parole stesse…”(9). Un dramma pervaso da una visione angosciosa della vita e del mondo, dove agisce “un’umanità divorata dalla catastrofe, priva di redenzione e salvezza…”(10).

Note:

  1. G. Vitiello – “Funiculì, Funiculà” del 3/5/1985
  2. N. Chiaromonte citato da G. Vitiello – in “Funiculì, Funiculà” del 26/4/1985
  3. V. Monaco, La contaminazione teatrale, cit. pag. 165
  4. N. Chiaromonte – ibidem
  5. Anon. – “Il teatro d’avanguardia a Napoli”, Il Mattino del 17/12/1967
  6. V. Monaco, ibidem, pag. 164
  7. V. Monaco, ibidem, pag. 164
  8. G. Vitiello – programma di sala de I Cenci, dicembre 1967
  9. V. Monaco, ibidem, pag. 165
  10. L. Libero, Dopo Eduardo, cit., pag. 11

Recensioni:

  • Anon. – “Il teatro d’avanguardia a Napoli”, Il Mattino 17/12/1967

Testo tratto dalla tesi di laurea in Istituzioni di regia, “Gennaro Vitiello, regista” di Leonilda Cesarano, per il Corso di Laurea in Dams – Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bologna, relatore prof. Arnaldo Picchi.